Falabretti: 'In questo momento non ci interessa riaprire gli oratori; ci interessa la vita dei ragazzi'.
(di Francesco Ognibene su Avvenire)
«In questo momento non ci interessa riaprire gli oratori; ci interessa la vita dei ragazzi». È il passaggio chiave della nota con le riflessoni della Pastorale giovanile nazionale sull’estate che sarà. E che il direttore don Michele Falabretti ci spiega così. Perché la Chiesa italiana mette già in campo gli oratori? Non è più prudente attendere che la pandemia sia davvero sotto controllo? Anzitutto è importante dire che non sarà fatto nulla che non possa essere definito sicuro: sono previste fasi diverse. È evidente la speranza che si possa arrivare a potersi incontrare, sia pure per piccoli gruppi. Ma questo non accadrà se le autorità competenti non daranno l’autorizzazione. Aggiungo, però, che si è creato un problema sociale serio: bambini, ragazzi e adolescenti rischiano di essere lasciati a sé stessi; ce lo possiamo permettere?
In che senso va inteso che le comunità sono 'aperte per ferie'?
L’estate ragazzi è un luogo generativo di relazioni e incontri. Da settimane i cortili dell’oratorio sono deserti e probabilmente lo saranno ancora a lungo. Ma c’è bisogno di aiutare la comunità a ritrovarsi. Anche i preti desiderano riprendere il loro ruolo di educatori e guide della comunità nel servizio di sostegno alle famiglie: la cura dei piccoli nel tempo estivo è sempre stata un’attività per loro significativa.
Che estate ha in mente la pastorale giovanile per i bambini e i ragazzi?
Un’estate dove i piccoli possano non cadere in solitudine, dove la pastorale giovanile si sperimenta in un tempo di emergenza e lo trasforma in laboratorio che le permetta di comprendere meglio i tempi nuovi, dove i preti e gli educatori possano condividere con le famiglie passione e competenze educative.
Che esperienza di vita stanno facendo i giovani e i giovanissimi in queste settimane?
Forse all’inizio si sono quasi divertiti, felici di poter godere di un tempo di vacanza inaspettato. Un po’ alla volta hanno sperimentato la paura, soprattutto in certe zone d’Italia: non so se i più piccoli hanno compreso parole come 'siamo in trincea', 'è uno scenario di guerra', 'dobbiamo stare attenti'. Però non sono stupidi: il senso di smarrimento l’hanno percepito eccome. Alla fine è arrivata pure la noia: quando sei alla decima video call in due giorni, cominci a provare anche un po’ di nausea... Cosa imparano da tutto questo è presto per dirlo: credo sia una domanda intelligente che dovremo saperci porre per i mesi a venire, ascoltando e accompagnando questo percorso che è di tutti.
E la Chiesa cosa sta imparando nel suo rapporto con i più giovani?
Anche questo ancora non lo s, ma ho il sospetto che i giovani abbiano antenne più potenti: forse stiamo imparando ad ascoltarli. Sarebbe una gran cosa...
Cosa può dire alla fede degli adolescenti quanto stanno sperimentando?
Spero il peso e la serietà della vita: per la prima volta si accorgono che stare al mondo non è una cosa ovvia, bisogna combattere. In fondo per gli uomini, fino ai nostri genitori e nonni, la vita è stata una palestra di conquiste continue. Per la prima volta tutti loro stanno facendo i conti con una fatica diffusa fatta di restrizioni, di attenzioni per sé e per gli altri, con il fatto che non è possibile fare tutto ciò che si vuole. Credo siano condizioni interessanti per uscire da sé stessi, per sperimentare che la propria vita non è un farsi da soli, ma ha un legame che scende dall’Alto.
Nella vita degli oratori cosa 'non sarà più come prima'?
A settembre intitolammo l’happening nazionale «Facciamo fuori l’oratorio», cercando di accogliere l’istanza missionaria della Chiesa. Stiamo sperimentando che il distanziamento fisico non distrugge il bisogno di relazioni, anche quando non si è raccolti nello stesso cortile. La creatività di queste settimane è un buon indicatore della capacità che esiste di tessere le trame della comunità anche oggi. Il tempo estivo sarà un laboratorio»